Camille Claudel

Camille Claudel

“Tenetevela, vi prego! Ha tutti i vizi e non voglio rivederla!”.

Con queste poche parole, scritte nel 1913 al Direttore del manicomio di Ville-Evrard, la signora Louise Cervaux, fresca vedova Claudel, condannò la figlia Camille a trascorrere gli ultimi trent’anni della sua esistenza in stato di reclusione forzata, resa ancora più triste dall’oblio che, poco a poco, sarebbe sceso su di lei.

Dimenticata da tutti, non avrebbe mai più rivisto la mamma e la sorella, mentre soltanto il fratello Paul, nell’arco di tre decadi circa, le avrebbe fatto visita una decina di volte, senza però trovare il tempo o la voglia nemmeno di recarsi al suo funerale.

Camille infatti morì il 19 ottobre del 1943 nella più totale solitudine, per la fame e gli stenti, perché nella Francia di quei tempi, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, se già il cibo scarseggiava per i “sani di mente”, figuriamoci se si trovava per i “fous”, i pazzi.

La bara, accompagnata soltanto da due persone di servizio, fu inumata in una tomba anonima, sormontata da una croce con un semplice numero, ma dopo pochi anni i suoi resti mortali sarebbero stati trasferiti in un ossario comune.

Questa fu la miserevole fine di una donna straordinaria che, secondo la descrizione fatta dal fratello, in gioventù “aveva una bellezza, un’energia, un’immaginazione e una volontà eccezionali”.

Camille Claudel era nata l’8 dicembre del 1864 in uno sperduto villaggio della Champagne, dove il padre Louis lavorava come funzionario comunale, mentre la madre si occupava di mandare avanti il ménage familiare, crescendo i tre figli all’insegna dei valori tradizionali: lavoro, parsimonia, fatica, ubbidienza e senso del dovere.

In questo quadro d’insieme, ben poco tempo restava per le dimostrazioni d’affetto, specie di parte materna.

Suo padre invece riuscì a cogliere e valorizzare l’inclinazione naturale che Camille dimostrò di possedere fin da bambina per la scultura: tutto ciò che vedeva, leggeva e immaginava, la spingeva infatti a modellare quelle che, in principio, erano semplici statuine in argilla.

Lo scultore Alfred Boucher, richiesto di un parere dal signor Claudel, comprese subito il genio che animava quella ragazzina e consigliò al padre di farla “monter vers la Capitale”, perché soltanto a Parigi, a quei tempi centro della vita artistica e culturale di tutta Europa, avrebbe potuto studiare e diventare una vera artista.

Ecco dunque che nel 1881 l’intera famiglia si trasferì nella “Ville Lumière”, dove Camille iniziò a seguire lezioni di modellato presso l’atelier dello stesso Boucher e poi, quando quest’ultimo si trasferì in Italia, nello studio di Auguste Rodin, scultore che si era già creato una notevole fama.

Di ventidue anni più vecchio di lei, brutto, tarchiato e legato a una donna che gli aveva regalato un figlio, ma con la quale non aveva voluto sposarsi, Rodin fu presto sconvolto da bellezza, talento e temperamento della nuova allieva, che in poco tempo diventò la sua più stretta collaboratrice, la musa, la modella preferita e l’amante.

Per i successivi dieci anni, i due lavorarono a quattro mani in una sorta di fusione artistica, professionale, amorosa e passionale.

A partire dal 1893 però Camille iniziò a prendere le distanze dal maestro, perché esasperata dai giudizi dei critici che non smettevano di accostare i suoi lavori a quelli di Rodin: lei infatti voleva rimarcare la propria autonomia e la raggiunta maturità artistica.

Quel brusco allontanamento le permise di assicurarsi le prime commesse lavorative e le consentì di esporre le sue opere presso importanti esposizioni nazionali ed internazionali.

“Le Dieu envolé”, “La Petite Chatelaine”, “la Valse”, “Contemplation”, “le Premier Pas” e “Clotho” sono solo alcune delle bellissime statue in marmo o bronzo realizzate da Camille in quegli anni di febbrile lavoro, purtroppo tormentati dalle ossessioni di cui iniziò a soffrire.

L’amore che aveva provato per Rodin si trasformò a poco a poco in profondo risentimento tanto che, sospettando che quest’ultimo volesse impossessarsi delle sue opere, ne distrusse alcune inscenando una specie di “esecuzione” e finendo poi per isolarsi nel proprio studio, in mezzo a disordine e sporcizia.

”L’Age Mûr“, nella versione bronzea del 1902, è la rappresentazione plastica del dramma umano vissuto da Camille, che nel gruppo scultoreo è la figura femminile che cerca disperatamente di trattenere il suo uomo, cioè Rodin, il quale invece, senza nemmeno degnarla di uno sguardo, si allontana da lei, trascinato via da un’altra donna: la prima compagna che poi finirà per sposare.

Nel marzo del 1913, ad una settimana esatta dal decesso del padre che gli mandava ancora aiuti di nascosto, il resto della famiglia decise di chiederne l’interdizione, ordinando il suo ricovero in quel manicomio da cui, nonostante tutte le sue suppliche, non sarebbe mai più uscita.

Nel 1988, a 45 anni dalla morte, una splendida Isabelle Adjani, nel film “Camille Claudel”, avrebbe finalmente reso il giusto omaggio a questa grande artista, diffondendo la conoscenza della sua opera e della tristissima vicenda umana che l’aveva vista come protagonista.

Accompagna questo scritto un’immagine di Camille Claudel all’età di 25 anni circa.

(Testo di Anselmo Pagani)